NEI TUOI OCCHI

Massimo Viti (Grosseto, 1956) è un architetto, ma non solo. E’ anche un creativo vulcanico ed eclettico che si muove da sempre tra design, grafica, pittura e fotografia.

In quel “non solo” c’è tutta la sua vita, basata su una emergenza espressiva che trascende i settori disciplinari per contaminare estetiche e poetiche con discipline olistiche e spirituali.

Perché Massimo Viti non aderisce a nessuna fede e a nessun dogma, non è portatore di alcuna Verità e, di conseguenza, è eternamente in ricerca. In una ricerca di condivisione e serenità, mai di conflitto e prevaricazione. E questa ricerca lo porta a sperimentare tecniche di espressione che, prima di tutto, sono pratiche di “visualizzazione creativa” necessarie a “inviare Amore, consapevolezza, energia, a ogni organo” del suo corpo. Amandosi, ha iniziato ad amare.

La pratica artistica, quindi, per Massimo è prima di tutto pratica di conoscenza del sé.

Prendiamo ad esempio le sue fotografie in bianco e nero. Gli interventi pittorici che interagiscono con l’immagine fotografica non sono funzionali a interpretare né a decorare la realtà, ma a conoscersi. Perché il processo creativo di Massimo non è estetico ma concettuale. Il grande artista Franco Vaccari diceva: «Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui». Vaccari chiamava questo stravolgimento operato dal mezzo espressivo, sempre più sofisticato ed evoluto, “inconscio tecnologico”. Oggi questo inconscio – con la massificazione dei procedimenti fotografici indotta dalle immagini digitali che tutti i cellulari producono – è diventato un inconscio collettivo omologante e alienante.

Così Massimo vuole ritrovare, prima dello sviluppo della foto – e quindi prima della mediazione tecnologica – le ragioni intime della scelta del suo scatto. Vuole ritrovare l’inquadratura nella sua memoria e ripercorrere le emozioni che lo hanno motivato a rendere quel momento eterno, a sceglierlo, a congelarlo e a sublimarlo. Quindi in camera oscura, prima dell’esposizione, attiva il filtro rosso e disegna sul foglio intervenendo con pennarelli e colori attinici. Lo sviluppo dell’immagine fotografica, così, viene anticipato dall’impulso creativo privo di qualsiasi condizionamento tecnologico: «In questa fase – spiega Massimo – la mia memoria aggiorna, incide, colora, riscrive con colori e segni grafici quel ricordo, quel momento particolare, prima dello scatto, che è carico di sensazioni, di dettagli, suoni e movimenti che una fotocamera non può mai registrare».

Se nelle fotografie questa operazione concettuale vuole riscattare la creatività dei singoli, svelando l’individualità “buona”, cioè la preziosa unicità e l’irriducibilità delle persone al conformismo della tecnica, nei dipinti emerge invece un registro più profondo che torna a immergere gli individui in un flusso di vita e conoscenza istintiva che, trascendendoli, li immerge in una nuova consapevolezza di spiritualità e unione nel tutto. Nei dipinti di grande formato, intitolati “Estasi”, sembra emergere la scoperta e la meraviglia di un mondo appena creato, vergine, nuovo. Colori vividi, tachisme, dripping, tracce vorticose di energie gestuali vanno a comporre e scomporre una figurazione primigenia carica di elementi sensuali e archetipi fortemente simbolici e liberatori, come quelli del parto, dei cieli, delle onde, della natura pervasiva e ubriacante: «Non so quanto rimasi ad osservare quella magia mentre respiravo lentamente – ci racconta – mi persi tra i rami degli alberi, tra i solchi delle ruote, segni e disegni di un colore unico. Dio non ha una sola religione, è in ogni cosa».

Ancora più astratti, gestuali e informali le opere del ciclo “Verso Oriente”. Riconducono alle prime esperienze e alle prime vocazioni spirituali. «All’università frequentavo molte gallerie d’arte moderna, sperimentavo, dipingevo cose veloci e astratte. Amavo la freschezza di Vedova, Schifano, Afro, Dubuffet – confessa – credevo in una pittura libera dalla figura e dall’oggetto, come la musica, che non illustra niente, senza storia, nè mito. Cercavo una pittura per far emergere i regni incomunicabili del mio spirito, dove il sogno era pensiero, il tratto esistenza». La pittura come vibrazione, quindi, come musica, come canto che scioglie le inibizioni. Come strumento per conoscersi, per ri-conoscersi, per entrare in relazione e per amare.

La vera rivoluzione, per Massimo, non è stravolgere il mondo ma averne una visione nuova.

Una visione che l’arte contribuisce a formare non attraverso la rappresentazione del “fuori” di sé, ma attraverso il sentimento e l’espressione del “dentro” di sé.

Perché l’arte, per Massimo, è utile solo quando ti fornisce gli strumenti per capire il mondo che sta nei tuoi occhi.

Mauro Papa